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St.DENIS E LA NAZIONALE CAMPIONE


Ho sempre creduto nella forza positiva che lo sport può riversare nella nostra società attraverso comportamenti virtuosi dei suoi protagonisti durante lo svolgimento di una competizione sportiva. Lo possono essere altrettanto - e li ho sempre apprezzati e ammirati - i gesti o le azioni di sportivi che, sfruttando l'immensa platea che un evento trasmesso in mondovisione può offrire, non hanno paura di lanciare messaggi veri, spesso dirompenti: uno dei più famosi è ritratto nella foto in bianco e nero in cui Tommie Smith e John Carlos si trovano sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi a Città del Messico, il 16 ottobre 1968, con i pugni alzati, i guanti neri (simbolo del black power), i piedi scalzi (segno di povertà), la testa bassa e una collanina di piccole pietre al collo (“ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato”). Con loro Peter Norman, un australiano che per solidarietà con i due atleti afro-americani indossò durante la cerimonia la coccarda dell’Olympic Project for Human Rights.


C'è ovviamente il rovescio della medaglia: ci sono i comportamenti censuabili degli atleti sul campo e c'è la Parigi del 13 Novembre 2015, con anche il tentativo di portare il terrore dentro lo stadio durante la partita di calcio Francia-Germania.


Di una cosa accaduta - o meglio, non accaduta - all'Old Trafford di Manchester la sera seguente quella tragica notte ha scritto Paolo Condò in un bell'articolo sullo scorso numero di Sportweek. Un campione personalmente scosso da quanto accaduto e il ricordo di una nazionale esempio di integrazione che è vincente - sul campo e tra le persone - solo è somma di singolarità e non risultato di sottrazioni ed esclusioni.


La sera del 14 Novembre, 24 ore dopo la tragica notte di Parigi, lo stadio del Manchester United (Old Trafford) è stato teatro di una partita benefica alla quale hanno partecipato numerosi vecchi campioni. Tutti i previsti, tranne uno. Mentre David Beckam ha guidato una rappresentativa britannica (con l'aggiunta di alcuni irlandesi). Zinedine Zidane non se l'è sentita di fare da capitano al "Resto del Mondo" : ha informato gli organizzatori che gli avvenimenti parigini l'avevano scosso nel profondo, si è scusato ed è rimastso a Madrid. Un grande giornalista, Rob Hughes, ha scritto allora sul New York Times un ricordo di 17 anni fa - i giorni del mondiale francese - quando aveva passato la vigilia di Francia-Italia (il quarto di finale che perdemmo ai rigori) nei vicoli poveri e pericolosi di St. Denis, il quartiere-ghetto dello Stade de France, lo stesso dove la mente degli attentati, Abdelhamid Abaaoud, si era nascosto prima di essere scoperto e ucciso dalla polizia.


Rob ha raccontato del suo girovagare per i Café algerini, il tipo di locale più diffuso considerata l'etnia degli immigrati, e di una chiacchierata con Khhedidja, ragazza madre che si arrabattava fra mille lavori nella banlieue all'ombra del gigangtesco stadio.


"Prima di fare i soldi ZIdane era esattamente come noi, basti pensare che la tecnica meravigliosa che lo contraddistingue l'ha imparata nei vicoli "algerini" di Marsiglia. Lui è un berbero, la sua famiglia viene da dove vengono molti di noi, non provo invidia ma soltanto ammirazione quando lo vedo giocare. Anzi. Quando è in campo con la maglia della Francia mi sento più francese di quelli che a Parigi ci sono nati, perchè sono orgogliosi di lui e di quello che rappresenta".


Nessuno dei franco-algerini al rione aveva il bigflietto per la partita, ma i rumori provenienti dall'interno - di entusiasmo, timore, ansia e infine giubilo - arrivavano perfettamente distinguibili sino al Café. Su una grande parete antifuoco con vista sullo Stade de France, l'Adidas aveva disegnato una famosa pubblicità con il volto di Zizou. La banlieu non ha mai abbandonato il suo figlio rpediletto, sostenendolo sia nel '98 dopo l'alterco (che costò una squalifica durante il torneo) con un giocatore saudita, sia nel 2006 dopo la testata a Marco Materazzi.


Chi conosce Zidane ha letto nella rinuncia di Old Trafford l'angoscia personale per l'amico Lassana Diarra, che nella notte di attentati terroristici ha perso una cugina, e quella collerriva per la crisi del modello di convivenza del quale la nazionale di 17 anni fa era stata l'esempio più alto.


Una meraviglia guidata dal musulmano berbero Zizou e composta, tra gli altri, dai caraibici Henry e Thuram, dal ghanese Desailly, dal basco Lizarazu, dall'argentino Trezeguet, dall'armeno Boghossian, dal calmucco Djorakaeff, dal kanako Karembeu, dal senegalese Vieira.


Non c'è mai stato, nello sport, un esempio di integrazione così profondo, riuscito e vincente: ed è pensando a quella squadra magnifica che la fiducia ci viene in qualche modo restituita. Siamo certi che anche Zidane vi troverà l'antidoto alla depressione.

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